I tempi del recupero di motoneuroni umani dopo un’attività volontaria

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Giuliano Taccola_

Giuliano Taccola

Giuliano Taccola sta attualmente lavorando negli U.S.A presso l’UCLA, University of California, Los Angeles. Ha vinto un progetto europeo nell’ambito del programma Horizon 2020, di durata triennale. I primi due anni, iniziati nell’ottobre 2015, si svolgono in USA con ritorno previsto per l’ottobre 2017.

L’attività del Laboratorio Spinal prosegue con i lavori di dottorato di Nejada Dingu e Francesco Dose con la supervisione a distanza di Giuliano Taccola e la presenza del prof. Andrea Nistri.

 

Nejada Dingu

Nejada Dingu

Nejada Dingu, dottoranda SISSA, i cui lavori abbiamo qui più volte illustrato, ha presentato al Journal Club un articolo dal titolo “Time course of human motoneuron recovery after sustained low-level voluntary activity”, pubblicato il primo febbraio 2016 sul Journal of Neurophysiology. Come prima firma Martin E. Héroux dell’Università del New South Wales, Sydney, Australia.

La traduzione del titolo: Le tempistiche del recupero di motoneuroni umani dopo un’attività volontaria prolungata a bassa intensità. L’esperimento è stato condotto su persone volontarie (senza lesione). L’obiettivo dei ricercatori era stabilire quanto tempo impiegano i motoneuroni a recuperare la capacità basale di trasmettere segnali elettrici dopo la fine di un compito motorio volontario, protratto nel tempo e a bassa intensità.

Dal momento che Spinal si occupa di studi relativi alle lesioni del midollo spinale perchè questo studio su soggetti sani?
Si trattava di un articolo scientifico interessante per comprendere meglio alcune proprietà di base dei motoneuroni. In genere si procede in questo modo: prima si indaga il comportamento del motoneurone in soggetti sani della popolazione generale, per capirne il funzionamento,  successivamente se ne studia in comportamento in sottogruppi, come le persone con lesioni spinali.

Era già noto, da studi condotti in vitro su modelli animali, che quando un motoneurone è soggetto ad uno stimolo elettrico (in vitro) o eccitato da un’azione motoria (nell’uomo),  inizia a generare potenziali d’azione, i segnali elettrici tramite i quali comunica con i muscoli, ad una determinata frequenza.

Se lo stimolo si mantiene costante per un tempo prolungato, il motoneurone riduce la frequenza di scarica dei potenziali d’azione: si parla di un fenomeno di adattamento allo stimolo protratto.

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Non arriva a zero comunque…
Tende allo zero perchè si abitua allo stimolo prolungato, perchè si adatta. Ad esempio, nel lavoro in vitro su motoneurone di ratto neonato che ho illustrato per introdurre l’articolo di Héroux e colleghi, il numero di potenziali d’azione è elevato durante il primo secondo di stimolazione elettrica (pari a 50), man mano che la stimolazione continua si riduce sempre più per arrivare a 10 nell’ultimo secondo di stimolazione. Questo meccanismo neurofisiologico viene definito adattamento della frequenza di spike (o dei potenziali d’azione).

Le cause di questo fenomeno sono molteplici (canali, trasportatori, modifiche degli equilibri ionici) per cui il motoneurone alza la sua soglia di attivazione e quindi la frequenza di potenziali d’azione si riduce tra inizio e fine stimolazione.

Nel lavoro del gruppo australiano su volontari sani si voleva definire in maniera precisa in quanto tempo un motoneurone andato incontro ad adattamento ritorna ai livelli iniziali di risposta.  In altre parole, si puntava ad identificare l’esatta durata della fase di riposo in seguito allo svolgimento di un compito motorio che aveva indotto l’adattamento.

Set up sperimentale con volontario

Setup sperimentale con volontario

 E’ quello che hanno cercato di fare nell’uomo…
Sì, registrando l’attività del tricipite brachiale… Il soggetto è semplicemente seduto ad un tavolo con l’arto superiore destro flesso quasi a 90 gradi, l’avambraccio sostenuto da un supporto stazionario e la mano sorretta da una cinghia che pende dal soffitto in maniera tale che non ci sia attivazione muscolare fino al momento in cui lo sperimentatore gli chiede di iniziare il compito motorio prestabilito. Il compito motorio consiste in una contrazione isometrica del muscolo tricipite brachiale in estensione del gomito contro la barra stazionaria da cui è sostenuto l’avambraccio. Quindi si registra l’attività del tricipite brachiale in due modi: 1- si fa una elettromiografia ad ago, un elettrodo ad ago inserito nel tricipite registra l’attività di singole unità motorie. 2- vengono posizionati due elettrodi di superficie, ai lati dell’elettrodo ad ago, capaci di registrare l’attività elettromiografica di un’ampia area del muscolo di interesse.

Quello che hanno chiesto ai volontario è stato di mantenere la frequenza di scarica dell’unità motoria target, registrata tramite l’elettrodo ad ago, costante e a bassa intensità durante tutto il compito motorio. Gli viene dato l’ordine di cessare il compito motorio quando l’attività elettromiografica di superficie, registrata dai due elettrodi di superficie, arriva a due volte l’attività iniziale.

Il fatto che l’attività aumenta alla fine del compito di contrazione vuol dire che il numero di unità motorie che sono state reclutate è maggiore rispetto al numero iniziale.

Una unità motoria è costituita da un motoneurone e dalle fibre muscolari che esso innerva.Se però quel motoneurone va incontro ad adattamento riducendo la sua frequenza di scarica di potenziali d’azione, il numero di fibre muscolari da lui innervate che si contraggono si riduce. Ma il compito che il soggetto sta svolgendo deve essere costante, quindi vengono necessariamente reclutate unità motorie aggiuntive a supporto della prima. Questo determina un aumento dell’attività elettromiografica di superficie.

A PARITA’ DI FREQUENZA DI SCARICA, L’AMPIEZZA DELL’ELETTROMIOGRAFIA DI SUPERFICIE AUMENTA GRADUALMENTE DURANTE UNA CONTRAZIONE PROLUNGATA SOTTO-MASSIMALE:

Esperimento 1

Esperimento 1

Esperimento 2

Esperimento 2

Quanto tempo ci vuole affinché l’attività elettromiografica ritorni a livelli iniziali?
Viene chiesto al soggetto di iniziare la contrazione, quando l’attività elettromiografica del muscolo arriva a due volte quella iniziale chiedono di interrompere il compito motorio. Seguono periodi di riposo che possono andare da 1 o 2 sec fino a 240 sec .

Si rileva che l’attività elettromiografica in seguito a 1 o 2 sec di riposo è simile a quella registrata alla fine del compito motorio, dimostrando che non c’è stato alcun recupero. Dopo pause di 15, 30 e 60 secondi l’attività elettromiografica si mantiene comunque alta rispetto alle condizioni basali. Solo dopo periodi di riposo pari a 120 e 240 secondi l’attività elettromiografica ritorna ad essere paragonabile a quella registrata all’inizio dell’esperimento.

Quindi gli autori concludono che, affinchè il motoneurone recuperi, ci vogliono come minimo 120 secondi di pausa fino a 240 per ritornare alle condizioni iniziali.
All’inizio dell’esperimento si ha una unità motoria attiva, alla fine sono attive 4 unità motorie.  Inoltre, definiscono in maniera esatta che le tempistiche di recupero dell’eccitabilità del motoneurone seguono un andamento esponenziale decrescente, quindi in cui dopo circa dopo 28 secondi di riposo si ha un 63 % di recupero, mentre dopo 240 secondi di pausa il recupero è pressoché completo (tendente al 100%).

Dimmi come questo articolo possa avere a che fare con la riparazione del midollo spinale o comunque sulla ricerca condotta da SPINAL
Bisogna tener presente che alcune tecniche utilizzate oggi in neuroriabilitazione, basate su protocolli protratti e costanti, hanno determinati effetti sul sistema nervoso, uno di questi è proprio il fenomeno di adattamento della frequenza di spike a cui vanno incontro i motoneuroni. L’articolo in oggetto offre importanti indicazioni in termini di tempistiche di recupero della capacità di scarica del motoneurone e presuppone di tener conto di tali tempistiche nello sviluppo di nuovi protocolli riabilitativi, più efficaci di quelli attualmente in uso.

Qual’è stata la reazione delle fisioterapiste presenti al JC?
Erano molto interessate: osservazioni simili si potrebbero replicare anche qui al Gervasutta, hanno discusso sulle modalità per metterle in atto.

Le fisioterapiste adoperano il Lokomat, questa macchina produce lo stesso adattamento dei motoneuroni?
Gli effetti dell’allenamento passivo indotto da questo esoscheletro robotizzato sulle proprietà elettriche del motoneurone non sono noti e potrebbero essere uno spunto di investigazione qui al Gervasutta.

In quali ambiti riabilitativi possono essere utilmente tenute in evidenza queste conclusioni?
In generale, bisogna tener conto del fatto che qualsiasi tipo di stimolazione, se protratta, induce adattamento. Quindi, è necessario considerare che l’introduzione di fonti di variabilità potrebbe prevenire meccanismi di adattamento. Ad esempio, parlando di elettrostimolazione, l’utilizzo di protocolli di stimolazione intrinsecamente variabili potrebbe contrastare l’insorgenza di simili fenomeni.

E’ seguita una discussione alla tua presentazione?
Abbiamo discusso a lungo del fatto che non è stata quantificata la forza di contrazione impressa dal volontario, per es. con un dinamometro. Infatti, anche se i volontari venivano istruiti a mantenere costante la frequenza di scarica dell’unità motoria target, non è detto che anche la forza contrattile si conservasse costante a causa dell’insorgenza di possibili meccanismi di affaticamento muscolare.

Queste osservazioni inficiano la validità delle conclusioni di questo studio?
No, non inficiano le conclusioni dello studio che risultano essere molto interessanti per le osservazioni fatte sul motoneurone.

Questo studio in qualche modo ti servirà nel tuo lavoro?
Sì perchè io lavoro sui circuiti locomotori spinali e il motoneurone è l’effettore finale dell’output locomotorio in quanto tutta l’attività neurale che riguarda movimento e postura converge su di esso.